La funzione conciliativa del Consulente tecnico d’Ufficio

di Paolo Frediani da Tecnici24 de Il Sole24ore

 “Ancor prima che nel nostro Paese si parlasse di sistemi alternativi di giustizia o autocompositivi delle vertenze, la conciliazione trovava silenziosa e diffusa applicazione negli incarichi di consulente tecnico d’ufficio: da sempre tale figura, oltre al compito dell’esperto tecnico, ha rappresentato anche un valore compositivo e in un certo senso attenuativo dei fattori conflittuali.

Nell’odierno panorama giurisdizionale tale incarico seppur, nel processo di cognizione, sprovvisto di un riconoscimento normativo rappresenta ormai una richiesta costante da parte dei giudici anche per ragioni funzionali legate alla mole di carico di processi che si trovano a dover gestire.

Quindi, non è affatto sbagliato considerare il CTU, pur atipico e decontestualizzato rispetto alla natura propria del procedimento negoziale, un potenziale, vero e proprio conciliatore e, ove propriamente formato e qualificato, più di ogni altro, anche in ragione dei requisiti di terzietà, autorevolezza e competenza, ha la possibilità di promuovere un esperimento conciliativo serio ed efficace della causa.

Anche per queste ragioni nel precipuo obiettivo di contribuire a realizzare una giustizia più efficace le funzioni conciliative del CTU sono quanto mai attuali e da riscoprire.

L’attualità di ciò ci ha indotto ad approfondire l’argomento con Paolo Frediani , direttore scientifico di questa rivista e studioso della materia, che in una propria pubblicazione del 2004 dal titolo La conciliazione nella CTU aveva anticipato nei fatti l’introduzione dell’istituto dell’art. 696 bis cod. proc. civ. ” .

Dove nasce l’attività conciliativa del CTU?

Negli ultimi tempi nel nostro Paese si è fatto un gran parlare di mediazione. Nonostante permangano profonde carenze culturali sui sistemi cosiddetti alternativi di risoluzione delle liti, i grandi dibattiti apertisi nella nostra comunità dopo l’introduzione della mediazione delegata di cui dal D.Lgs. 28/2010 hanno per lo meno avuto il merito di mettere al centro dell’attenzione un istituto fino a oggi pressoché sconosciuto.

Ricordiamo, infatti, che l’introduzione della conciliazione, quale strumento alternativo e in vario modo complementare agli ordinari sistemi giurisdizionali di risoluzione delle controversie, si deve alla legge 580/1993 di riforma delle Camere di commercio.

Da allora molte sono state le novità che hanno avuto a oggetto detto istituto: dalla legge 192/1998 in materia di sub-fornitura delle attività produttive, alla riforma del diritto societario; molteplici i tentativi di ricondurre il sistema dell’ordine imposto in quello negoziato, segnati da alterne fortune e talvolta da utopici obiettivi. Tutte iniziative legislative ispirate dal costante obiettivo di sfavorire il ricorso alla giustizia e di deflazionare l’enorme carico giudiziario che, nel frattempo, ha registrato condizioni ben lontane dagli standard limite individuati dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo e da quelle accettabili da qualsiasi società moderna.

Con la mediazione delegata che adesso ha conosciuto nuova vita con la conversione del c.d. decreto del “fare” (art. 84, D.L. 69 del 21 giugno 2013, convertito dalla legge 98 del 9 agosto 2013) n. 69 “disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”) dopo la scure calata dall’intervento della Corte Costituzionale del dicembre 2012 anche il nostro ordinamento si è dotato di uno strumento più flessibile e diretto per la gestione delle liti.

Ma occorre osservare che, nel nostro Paese, da ben prima che si parlasse dei c.d. sistemi alternativi della giustizia civile (conosciuti a livello internazionale con l’acronimo ADR, Alternative Dispute Resolution ), e dei relativi operatori (conciliatore, negoziatori e, più tardi, mediatore) le attività di conciliazione e “componimento amichevole” delle vertenze seppur in ambito giurisdizionale e non tipicizzato venivano svolte dall’ausiliario del giudice nel corso degli incarichi di consulente tecnico d’ufficio. D’altra parte, detta figura ha sempre portato con sé, oltre al compito di esperto atto a rispondere ai quesiti di carattere tecnico formulati dal magistrato, oggi fortemente accentuato anche dalla centralità che hanno assunto le risultanze peritali per la decisione giurisdizionale, anche un valore compositivo e in un certo senso attenuativo dei fattori conflittuali in ossequio ai principi di terzietà, autorevolezza e competenza che ne caratterizzano il compito.

Quindi non è affatto sbagliato considerare il CTU, pur atipico e decontestualizzato rispetto alla natura propria del procedimento negoziale, il primo vero conciliatore che ha conosciuto il nostro Paese.

Il codice di procedura civile per la verità riconosce anche al giudice il potere di promuovere un tentativo di conciliazione nel corso del procedimento, ma questo istituto, per un insieme di ragioni funzionali e contingenti, non ultimi la scarsità di tempo a disposizione e il gran carico di procedimenti, non determina risultati significativi.

Pertanto, è il consulente tecnico d’ufficio se propriamente formato e qualificato che più di ogni altro, anche in ragione dei ricordati requisiti di terzietà, autorevolezza e competenza, ha la possibilità di promuovere un esperimento conciliativo serio ed efficace della causa.

L’attività conciliativa è prevista dalla normativa vigente?

Il consulente tecnico d’ufficio nei fatti opera in una doppia attività: da un lato quella finalizzata al rispondere ai quesiti posti dal magistrato, dall’altra quella di tentare un componimento della controversia che ponga fine alla causa.

Occorre osservare che rispetto al passato, con ogni evidenza, mentre la prima attività era ed è rimasta ritualizzata dalle norme, la seconda ha assunto in parte un riconoscimento normativo, una maggiore portata sostanziale nell’alveo degli incarichi pur in gran parte di questi non riconosciuta nel quadro normativo.

Infatti, con l’introduzione del procedimento consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all’art. 696 bis cod. proc. civ. dovuta alla legge 80/2005 entrata in vigore il 1° marzo 2006, si è di fatto fornito, per la prima volta nel nostro ordinamento in modo cosi chiaro e per un’amplissima casistica di vertenze, pur in una procedura del tutto atipica e non connessa alla causa, il riconoscimento di conciliatore al consulente tecnico d’ufficio; dapprima infatti ciò era previsto nel processo di cognizione limitatamente agli incarichi aventi riguardo l’alveo dell’art. 198 cod. proc. civ. (esame contabile).

Ciò ha determinato un inquadramento in un certo senso innovato del ruolo del CTU, in particolare nei profili spesso sino a quel momento silenti del suo compito di conciliatore della vertenza.

Ma pur per quanto rilevato in relazione alla novella dell’istituto di cui all’art. 696 bis cod. proc. civ. occorre osservare che tutt’oggi gran parte degli incarichi di conciliazione della controversia rimangono sprovvisti del riconoscimento di legge; infatti, i consulenti tecnici d’ufficio li ricevono nell’ambito del processo di cognizione dove, come abbiamo già ricordato, non vi è una previsione normativa specifica (con la sola esclusione del già segnalato art. 198 cod. proc. civ., di ambito applicativo assai ristretto).

I giudici, anche per ragioni funzionali legate alla mole di carico di processi che si trovano a dover gestire e a quello di stimolare spazi idonei alla dialettica fuori dagli schemi processuali che possano persuadere le parti a prendere in considerazioni soluzioni alternative, ormai pressoché costantemente, affidano al proprio consulente anche il compito di conciliare la lite inserendo l’indicazione nel quesito, in un certo senso quindi “ritualizzando” tale attività, come già osservato non prevista nella attività del CTU nel processo di cognizione.

Detto riconoscimento pur privo di una “copertura” normativa è un invito formale a esperire la conciliazione facendo così assumere un ruolo primario all’opera del CTU.

È quindi possibile e auspicabile che tutti coloro che sono impegnati nello svolgimento degli incarichi di consulente tecnico d’ufficio presentino alle parti in giudizio una strada diversa e soprattutto funzionale per gli interessi e le necessità reali delle stesse; ciò a mezzo della promozione di un tentativo di conciliazione che possa portare al raggiungimento di una valida intesa con la conseguente cessazione della controversia giudiziaria.

D’altra parte, occorre osservare che, frequentemente, le controversie trattate risultano legate a condizioni importanti nella vita degli individui e anche di rilevante importanza economica, come per esempio la divisione di un patrimonio familiare, la ristrutturazione o l’acquisto dell’abitazione, facendo quindi acquisire, in taluni casi, anche una connotazione psicologica di valore simbolico per le parti coinvolte.

Appare superfluo affermare la rilevante importanza di tale attività, attese le condizioni di evidente difficoltà in cui versa il sistema giudiziario italiano, in particolar modo quello civile. D’altra parte non sfugge come le cause giudiziarie abbiano assunto più connotati di moltiplicatori di conflitti che di strumenti di soluzione agli stessi; può risultare difficile comprendere il senso di una decisione favorevole giunta dopo diversi anni per colui che ha necessità di regolamentare scelte del vivere quotidiano con costi complessivi del giudizio che superano alcune volte il valore della controversia. Talvolta le decisioni si rivelano non solo tardive ma anche inadeguate nella sostanza, poiché si basano e non vi è alternativa su questo su diritti che non sono diretta espressione di quegli interessi sottostanti che hanno generato il conflitto.

Ma i consulenti tecnici d’ufficio sono preparati a svolgere questo ruolo?

La questione è molto delicata e centrale rispetto a tutta la materia. Con il riconoscimento del ruolo di conciliatore al CTU si è anche indicata, più o meno implicitamente, la necessità che questi abbia competenze e conoscenze specialistiche per adempiere a tale delicato compito.

Infatti, se da un lato non vi è dubbio che il CTU opera in ragione dell’iscrizione all’albo dei consulenti tecnici del tribunale, dall’altro occorre osservare che i requisiti necessari per essere inseriti in detto elenco non sono tali da garantire la competenza nelle materie della conciliazione e di gestione del conflitto. Va da sé osservare come non appare fuori luogo considerare indispensabile per assolvere pienamente al mandato poter fare affidamento a consulenti di comprovata esperienza e competenza sul piano della gestione delle relazioni (comunicazione), delle situazioni di litigiosità (gestione del conflitto) e di componimento conciliativo (negoziali).

In tale senso sarebbe ampiamente giustificabile prevedere la specializzazione di “mediatore-conciliatore” tra quelle previste dall’art. 13 disp. att. cod. proc. civ. per l’iscrizione all’albo dei consulenti tecnici del tribunale affinché i magistrati, all’atto dell’affidamento dell’incarico, possano individuare i soggetti più qualificati; ciò diventa ancor più necessario dove si registra, nella comunità dei consulenti tecnici, una preoccupante carenza culturale in materia di conciliazione e, in generale, dei sistemi autocompositivi del conflitto.

Inutile nascondere, infatti, che la stessa nozione di conciliazione è ancora largamente sconosciuta ai più, finanche a buona parte degli operatori del processo: l’idea comune è che sia compito del mediatore individuare una soluzione “giusta” e convincere (in certi casi imporre) agli interessati la soluzione prescelta.

È, invece, precipuo compito del mediatore individuare non una soluzione “giusta” questo è compito del giudice o dell’arbitro quanto una soluzione “conveniente” per le parti. E ciò è possibile solo se dal piano dei diritti si passa al piano degli interessi, a questi sottostanti; ovvero si favorisce per le parti il passaggio e ciò lo può fare esclusivamente il mediatore dalle posizioni (le pretese della lite) agli interessi (i motivi della lite).

In verità, la funzione del mediatore come osservato dal raffinato studioso e giurista Francesco Paolo Luiso è perfettamente equivalente a quella del catalizzatore nelle reazioni chimiche: i due elementi, che da soli non interagiscono, in presenza del terzo elemento (il catalizzatore) sviluppano la reazione che porta alla formazione di un risultato, composto soltanto dai due elementi originari e non dal terzo. Così l’accordo delle parti trova fondamento esclusivamente nella loro volontà contrattuale, senza che il terzo, che pure ha suggerito il contenuto dell’accordo, assuma alcun ruolo nella validità ed efficacia del contratto.

Il fondamento contrattuale della conciliazione consente anche di cogliere il vantaggio più rilevante della risoluzione autonoma (negoziale) della controversia rispetto alla risoluzione eteronoma (arbitrale o giurisdizionale): il potere dispositivo, che solo le parti hanno e che non possono ovviamente avere né il giudice né l’arbitro, consente di dare un contenuto atipico al contratto, finanche facendo sì che oggetto dello stesso siano diritti diversi da quello controverso. La soluzione negoziale della controversia non sempre è possibile, come già accennato, ma quando lo è essa ha un valore tangibilmente superiore alla soluzione giurisdizionale o arbitrale.

Alla luce di ciò il CTU deve considerare l’esperimento conciliativo come parte sostanziale del proprio incarico e non come “entità astratta” o peggio ancora “estranea”; attività a cui dedicarsi in modo professionale, con una formazione adeguata e non approssimativa.

Potremmo osservare come l’attività conciliativa se ben condotta e operata, finirà per assorbire il maggior impegno nell’economia generale dell’incarico peritale e anche a far conseguire le maggiori soddisfazioni sul piano personale.

D’altra parte non sfugge a nessuno come operare la conciliazione tra soggetti già impegnati in una causa giudiziaria sia ben diverso che farlo tra coloro che sono ancora liberi da questo vincolo; tutte le fasi risulteranno connotate da maggiore difficoltà; principalmente lo sarà quella dell’aspetto comunicativo tra i soggetti coinvolti che risente fortemente delle dinamiche conflittuali tipiche delle procedure giudiziarie.

Per tali motivi è indispensabile affidare i detti incarichi a soggetti propriamente formati e qualificati e mettere in atto un approccio privo di approssimazione o peggio ancora superficialità. D’altra parte, pur non avendo una propria struttura rituale, il tentativo di conciliazione nel corso di una consulenza tecnica deve rispondere a requisiti di funzionalità, efficacia e trasparenza; ed è il CTU a essere garante di ciò.

Con ogni evidenza non può trovare accoglimento l’ipotesi di demandare l’attività conciliativa ai legali, ai consulenti tecnici di parte o peggio ancora alla fase successiva al deposito della relazione peritale. Come pure quella di procedere, per così dire, per via indiretta con proposte scambiate per e-mail e senza una sessione conciliativa con tutte le parti coinvolte, o come quella di far partecipare all’incontro i soli legali e tecnici di parte e non anche alle parti in lite o, ancora, quella di organizzare l’incontro conciliativo dopo avere presentato alle parti la relazione peritale preliminare.

Vi è vasta casistica di condotte non funzionali, talune anche veramente singolari, messe in atto dai consulenti tecnici; riteniamo tuttavia che questa non sia la sede per passarle in rassegna. Ciò però ci offre la possibilità di porre al centro dell’attenzione il modus operandi del nostro CTU-conciliatore, questione tutt’altro che scontata rispetto alle ambiziose finalità che si prefigge con la propria opera.

Occorre per il CTU comprendere che questa fase ha come obiettivo primario (tutt’altro che scontato e semplice) quello di far passare le parti dall’ordine imposto a quello negoziato . L’obiettivo sarà raggiunto se le parti avranno abbandonato le dinamiche tipiche delle procedure avversariali a vantaggio di quelle non avversariali.

Infatti, le parti impegnate a confrontarsi in sede giurisdizionale, spogliandosi di qualsiasi responsabilità, hanno nella sostanza demandato la propria volontà, e le decisioni ad un terzo che deciderà sulla base delle norme; nell’ordine negoziato, invece, le parti debbono confrontarsi in termini cooperativi cercando in piena autonomia una soluzione basata sugli interessi e convenienze reciproche piuttosto che sui diritti.

Gli approcci sono totalmente diversi e se vogliamo contrapposti: si tratta di delineare per le parti regole comportamentali per il futuro piuttosto che stabilire e decidere su condotte del passato. In buona sostanza, uno sguardo in avanti piuttosto che indietro.

Da queste poche regole che contraddistinguono le basi dell’intervento del CTU-conciliatore, si comprende benissimo come per le parti questo sia tutt’altro che semplice; deve essere il consulente tecnico d’ufficio ad aiutarle ad accedere a questa possibilità operativa, offrendo conoscenza delle procedure, tempo per maturare consapevolezza e accettare il mutamento di scenario e i più efficaci ambiti di confronto e discussione, non precludendo alcuna delle possibilità per giungere al risultato.

Può spiegarci, in sintesi, come dovrebbe operare il CTU in un tentativo di conciliazione?

La questione non è di facile e immediata risposta, in quanto assai articolata.

Tuttavia, in sintesi, posso affermare che è importante per il CTU-conciliatore conoscere adeguatamente tutte le dinamiche della delicata fase conciliativa operando in modo cooperativo, sia sul piano normativo sia su quello sostanziale, con i legali senza i quali alcuna attività conciliativa potrebbe avere luogo; occorre poi farlo anche con i consulenti tecnici; tutto ciò nel precipuo indirizzo di connotare dell’indispensabile grado di condivisione e credibilità tutta questa opera.

È poi indispensabile coinvolgere direttamente le parti in lite che, come detto, debbono partecipare direttamente agli incontri dedicati alla conciliazione della vertenza; occorre osservare che queste persone, assoggettate al tipico confronto avversariale, indotto magari da anni di causa giudiziaria, hanno perso la familiarità nel confrontarsi direttamente alcune volte non accettando addirittura di sedersi al medesimo tavolo dove troverà posto la controparte.

Inoltre, è importante costruire intorno all’incontro un clima di fiducia e serenità per far sentire le parti nella migliore condizione per dare corso al confronto e assumere le necessarie decisioni. Inoltre, è essenziale non permettere lo spostamento del confronto sul piano personale (soggettivo) rispetto a quello del problema (oggettivo); infatti, quando le controversie si articolano intorno alle posizioni (su quello che le parti dicono di volere) rispetto agli interessi (quello che desiderano in realtà), è molto frequente che la disputa si sposti sul piano personale poiché le parti, avendo l’unica visione della materia negoziabile in quello delle posizioni si identificano esclusivamente in queste. Dobbiamo, inoltre, considerare che il confronto sul piano delle posizioni non offre alcuna possibilità se non quella della transazione (dividere le quantità disponibili); quando anche si trovasse una soluzione sulle posizioni dobbiamo tenere conto che non produrrà mai un accordo soddisfacente perché vi sarà sempre una parte che ha guadagnato a spese dell’altra.

Per questo è necessario operare la possibile intesa sulla base degli interessi, convenienze e necessità delle parti. Ed è perciò indispensabile operare una indagine capillare, attraverso le domande e lo studio dei linguaggi delle parti, per identificare gli interessi che sono all’origine della disputa ricercando anche tra quelli più nascosti e impliciti, sapendo bene che in ogni conflitto esistono uno o più interessi che lo hanno originato e che spesso non sono quelli dichiarati dalle parti nei loro atti giudiziari.

In ultimo il CTU-conciliatore non deve cadere nella trappola (molto facile e invitante) di sostituirsi alle parti nelle decisioni, rispettando invece la loro (indispensabile) capacità di autodeterminazione. Occorre ricordare, infatti, che il CTU-conciliatore non deve mirare al raggiungimento di un accordo qualsiasi ma a un’intesa dal carattere duraturo, concreto, rispettato e condiviso: solo questa sarà capace di estinguere il conflitto e non solo risolvere la lite.

La conciliazione che il CTU-conciliatore si propone non è diversa da quella definita dall’istituto comunemente conosciuto. In sostanza questa è una procedura che propone un approccio alla gestione dei conflitti alternativo rispetto alle procedure giudiziari tradizionali basate sul binomio vittoria-insuccesso e dove le parti si estraniano decisamente dal conflitto che le riguarda, demandando a terzi la decisione per la sua risoluzione. È, di fatto, un processo consensuale nel quale le parti in conflitto presentano i loro punti di vista a una terza persona neutrale (in questo caso il CTU-conciliatore), mantenendo tuttavia il controllo del processo e del risultato. Non viene garantito un accordo finale e il conciliatore non ha il potere di prendere una decisione vincolante per le parti in lite ma ove richiesto può formulare una proposta di accordo che le parti possono accettare o meno.

La conciliazione è alla ricerca di un accordo basato sugli interessi favorita dall’intervento di un terzo estraneo alla disputa propriamente formato su cosa conciliare, ma anche su come farlo. È necessario, infatti, che il mediatore sia esperto nella materia oggetto della controversia ma anche che sappia condurre la procedura e conosca le tecniche e i metodi da utilizzare per offrire alle parti un esperimento qualificato e responsabile.

La procedura prescinde da qualsiasi elemento di giudizio e di decisione proveniente dal terzo, facendo esclusivamente leva sulla volontà delle parti le quali sono indotte a collaborare per ricercare un accordo risolutivo mutuamente vantaggioso. Il confronto viene condotto e regolato dal conciliatore, in modo funzionale e non autoritario, che favorirà e sorreggerà la comunicazione tra le parti affinché emergano le pretese e gli interessi, nel pieno rispetto della libertà di determinazione delle parti, per stimolarle a prospettare la soluzione più soddisfacente per entrambe. Solo infatti questa è idonea a eliminare efficacemente il conflitto, essere rispettata e durare nel tempo.

Proprio sulla volontà collaborativa delle parti si basa il procedimento conciliativo che si compone delle due parti, partenti da posizioni opposte, e del conciliatore; questo dovrà utilizzare tecniche e abilità che gli permetteranno di poter acquisire prima la fiducia e la collaborazione delle parti e poi il concreto e fattivo coinvolgimento delle stesse nel processo che le guiderà al raggiungimento di un accordo di reciproca soddisfazione. Per far questo il soggetto chiamato a gestire l’esperimento utilizza tecniche di percezione, comunicazione e negoziazione che sono alla base dell’interazione umana e che nella procedura trovano uno sviluppo specifico e finalizzato allo scopo.

Nella conciliazione distinguiamo due modalità d’intervento del professionista terzo imparziale, che fa assumere alle procedure i termini diconciliazione facilitativa conciliazione valutativa .

Nella conciliazione facilitativa, il ruolo del conciliatore si limita ad assistere le parti al fine facilitarne la comunicazione, l’indagine sugli interessi, il cambio di prospettiva, la generazione delle alternative per far giungere le parti ad un accordo reciprocamente soddisfacente.

Nella conciliazione valutativa, il conciliatore, dopo aver ascoltato le parti, valuta le loro pretese e formula una proposta di accordo, nei confronti della quale le parti mantengono la libertà di adesione.

In definitiva, il ruolo del terzo nella procedura facilitativa consiste nel consentire alle parti il passare dalle posizioni agli interessi. In questa specifica modalità è da curarsi particolarmente la formazione del mediatore poiché non è possibile per questo imporre, né tanto meno suggerire, soluzioni della controversia, mentre è necessario saper guidare le parti affinché possano assumere, in piena determinazione e autonomia, la soluzione più soddisfacente per i propri interessi.

Nella procedure di tipo valutativo, invece, al termine della procedura che non abbia condotto alla conciliazione della vertenza, il terzo formula una proposta di accordo che possa consentite alla parti di identificare un punto d’intesa. Questa doppia modalità, come sappiamo, è quella che prevede il decreto in materia di mediazione delegata di cui al D.Lgs. 28/2010 e successive modifiche e integrazioni.

Nel rispetto dei requisiti di funzionalità che regolano l’esperimento di conciliazione del CTU-conciliatore, questi dovrebbe poter adottare il modello facilitativo che seppur indubbiamente più complesso consente di porre al centro del procedimento le parti con i loro interessi e necessità, conseguendo i risultati più efficaci in termini di soddisfazione dei bisogni sostanziali e di estinzione dei fattori conflittuali. Solo nei casi ove le parti ne possano fare richiesta o dove il CTU intraveda come unica possibilità di condurre l’accordo in quella modalità è possibile adottare il modello valutativo o aggiudicativo che, in termini di conciliazione pura presenta i limiti della intesa proposta da un terzo e non dalle parti. D’altra parte giova osservare come nella dizione letterale dell’art. 696- bis cod. proc. civ. il legislatore ha connotato l’intervento del CTU più con profili di ordine aggiudicativo (“…prima del deposito della relazione tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti”) che non con quelli di una conciliazione pura dove il terzo si limita a supportare la comunicazione dei contendenti cercando di far emergere i fattori conflittuali affinché le parti in lite possano considerare i possibili vantaggi dell’accordo individuando loro quali quelli utili e idonei.

In conclusione, il CTU può essere un vero e proprio conciliatore della causa?

Certamente.

Appare di tutta evidenza come la forza e il potere conciliativo che il CTU può avere nel corso del proprio incarico e che come abbiamo osservato se adeguatamente e correttamente utilizzati, nessun’altro possiede nell’ambito della causa (escludendo da ciò, ovviamente, in termini sostanziali le parti che uniche con il loro potere dispositivo possono farlo in qualsiasi momento), lo configurino quale soggetto unicuma operare una conciliazione piena e soddisfacente.

In tal senso a parere di questo autore i tempi sono maturi affinché il legislatore recepisca in un provvedimento normativo la prassi e la consuetudine consolidata oramai in tutti i tribunali italiani; una norma dedicata che consenta analogamente all’istituto ex art. 696 bis cod. proc. civ. pur con gli inevitabili e i necessari diversi rapporti con il processo, da un lato, un riconoscimento completo del ruolo di conciliatore per il consulente tecnico d’ufficio e dall’altro l’attuazione di effetti pieni ed efficaci in termini di tutele a garanzie dispositive degli accordi in quell’ambito raggiunti dalle parti.

Ciò senza dubbio porterebbe maggiore forza all’opera sostanziale del consulente tecnico d’ufficio nonché una più completa consapevolezza della dignità del ruolo del conciliatore agli occhi di operatori del processo, anche nell’indirizzo, sempre auspicato, di una maggiore professionalizzazione del delicato ruolo.

Nell’attesa dell’intervento del legislatore è, in conclusione, da richiamare la essenziale importanza dell’intervento del CTU propriamente qualificato nell’indirizzo di conciliare la lite giudiziaria dove egli, mettendo al servizio della Giustizia, ancora prima le capacità tecnico-specialistiche, le proprie abilità umane-relazionali, può concretamente offrire alle parti una visione diversa del conflitto che consenta alle stesse di comprendere una via nuova e differente per regolare e comporre la lite. Ciò nel precipuo scopo di contribuire ad affermare nella nostra comunità una crescita di senso civico (della quale tutti sentiamo un gran bisogno) e nell’ambizioso risultato di conseguire una giustizia più vicina alle necessità dei cittadini.